Sentire uno come Mario Monti, che parla di "riforme radicali" e attacca i "fortini protetti delle lobby, delle corporazioni, dei privilegi del nostro paese", sposta in alto l'asticella del senso del ridicolo italiano. Dopo Berlusconi, campione dei conflitti di interesse e di bugie epocali (da quella secondo la quale non ha mai pagato una donna, fino al complotto internazionale che lo avrebbe spodestato da Palazzo Chigi), ecco il nuovo che avanza a colpi di balle mefitiche.
Se c'è una persona che in Italia incarna bene quella del lobbista, è proprio il Professore, la cui campagna elettorale viene finanziata da un manipolo di industriali che vanno da Tronchetti Provera a Della Valle, passando per Montezemolo, la famiglia Agnelli e Sergio Dompè (presidente di Farmindustria, una delle lobby più potenti e più difficili da intaccare).
Monti è anche uomo dell'Università Bocconi, i cui campioni hanno occupato in questi ultimi tempi molti posti chiave del paese, delle banche (clamorosi i cosiddetti Monti bond, 3,9 miliardi che il governo presterà al Monte dei Paschi di Siena,
accettando di farsi rimborsare gli interessi, in caso di insolvenza,
con azioni della banca valutate cinque volte più di quanto faccia il
mercato), del famigerato Gruppo Bildeberg (che non sarà l'impero del male ma non è neanche il club degli amici di Topolino) e ha lavorato per la Fiat per la quale ha fatto parte del consiglio di amministrazione (sintomatico l'endorsement ricevuto da Marchionne a Melfi, peccato che due giorni dopo il manager col maglioncino, fregandosene del suo lode, abbia annunciato la chiusura dell'impianto per due anni e la cassa integrazione).
Prima di diventare Presidente del Consiglio "tecnico" era international advisor per Goldman Sachs, una delle più grandi banche d'affari del mondo, incriminata per frode dalla SEC, l'ente governativo statunitense che controlla la Borsa, e nota per il meccanismo delle revolving doors (le porte girevoli), grazie al quale alcuni personaggi passano da responsabilità pubbliche a ruoli
di vario genere all'interno della banca e viceversa, garantendo gli interessi della consueta oligarchia e influenzando in maniera assai poco trasparente le politiche economiche dei singoli paesi (soprattutto quelli in difficoltà, come noi o la Grecia).
Ecco, a un uomo così, che il Financial Times oggi ha definito "inadeguato a governare l'Italia" paragonandolo a Heinrich Brüning, cancelliere della Repubblica di Weimar ed esponente del centro cattolico, che con le sue politiche economiche di austerità contribuì ad aggravare il disagio sociale in Germania favorendo l'ascesa del
nazismo, è proprio difficile credere quando parla di riformismo.
Perché l'unica riforma che ha in mente, ed è cosa nota da tempo, è quella di ridurre i diritti dei lavoratori, i trattamenti sanitari e pensionistici, i soldi alla scuola e alla sanità pubbliche. Le lobby, con lui, possono dormire sonni proprio tranquilli.
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