Vecchi e inadeguati. Dopo essersi fatti infinocchiare da 4-500 teppisti, che si saranno pure addestrati nella temibile Grecia (come vanno berciando tutti i giornali come se là ci fossero chissà quali organizzazioni criminali), ma restano sostanzialmente dei ragazzini armati di bastoni, spranghe e sassi, ora le forze dell'ordine reagiscono con i soliti sistemi da anni sessanta, fanno volare gli stracci negli ambienti dei soliti noti (noti perché già identificati in altre manifestazioni) e mandano avanti qualche faccia di bronzo che invoca leggi speciali. Oggi tocca all'ex poliziotto ed ex magistrato Antonio Di Pietro, diventato chissà perché un mezzo idolo anche a sinistra, che finalmente getta la maschera e mostra tutta la sua rabbia repressa di ex manganellatore invocando il "ritorno alla legge Reale". Lo zappatore molisano fa finta di non ricordare che quelle norme, firmate da un ministro del Partito repubblicano nel 1975, sono sostanzialmente ancora in vigore, visto che il referendum del 1978, tenutosi nel clima dei cosiddetti anni di piombo, non riuscì ad abolirle. La legge Reale consentiva alle forze di polizia l'utilizzo delle armi anche nelle questioni di ordine pubblico (una possibilità che in nessun altro paese civile è così disinvolta e che da noi è diventata l'alibi per numerose macellerie alla messicana), consentiva un fermo preventivo di 96 ore (4 giorni in carcere senza la convalida del magistrato, uno schifo che è comunque rimasto in piedi con il limite della 48 ore) e vietava di poter girare con il viso coperto (la norma con la quale si potrebbe, volendo, impedire l'uso del burqa in Italia senza bisogno di approvare altre leggi manifestamente anti-islamiche).
L'uscita di Di Pietro è stata subito spalleggiata da un altro diversamente democratico, Roberto Maroni, l'unico ministro dell'Interno al mondo con una condanna penale sulla testa per resistenza a pubblico ufficiale.
Cosa abbia prodotto questa legge liberticida negli anni fra il 1975 e i primi sei mesi del 1989 è possibile verificarlo grazie al "libro bianco" del Centro di iniziativa Luca Rossi, che prende il nome da un giovane ucciso da un agente della Digos nel febbraio del 1986 a Milano: 254 morti e 371 feriti, il bilancio del braccio violento della legge, armato per combattere l'eversione e poi in realtà rivolto contro gli emarginati, autori magari di piccoli reati, ma comunque stritolati dall'ingranaggio dell'apparato poliziesco. Ottantuno persone sono state uccise in "assenza di reato" (ovvero avevano solo atteggiamenti sospetti, o documenti irregolari, o erano ricercati, o completamente estranei). Altri 55 sono stati uccisi per episodi di microcriminalità e 54 per oltraggio e/o resistenza a pubblico ufficiale.
Il far-west, insomma, del quale evidentemente si sente la nostalgia.
Mentre quasi nessuno (tranne gli stessi poliziotti) si permette di criticare una strategia di gestione della piazza totalmente fallimentare (e per la quale i vertici di questura e prefettura dovrebbero rispondere) e tutti si "indignano" per le devastazioni a cui è stata sottoposta la capitale, a Palazzo Chigi sopravvive e prospera l'univo vero black-bloc della politica italiana, il premier Silvio Berlusconi, che intercettato al telefono con Valter Lavitola favoleggia di una rivolta armata di popolo: "Facciamo la rivoluzione, ma la rivoluzione vera. Portiamo in piazza milioni di persone, facciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica: cose di questo genere, non c'è un'alternativa...".
Roba da scolapasta in testa, vero, ma a me non viene mica tanto da ridere.
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