Ora cascano improvvisamente tutti giù dal pero, come se se si trattasse di un colpo di scena. C'è chi sciopera e occupa, chi se la prende con gli ambientalisti, chi tenta ancora di declinare qualche assurdo slogan che metta insieme produzione e compatibilità ambientale, c'è chi come al solito se la prende con i magistrati. Ma la decisione di mettere i sigilli per "disastro ambientale" a sei reparti dell'acciaieria Ilva di Taranto è solo l'atto finale di una tipica storia italiana, nonché l'ennesima dimostrazione del fatto che le privatizzazioni, qui a queste latitudini, servono solo a danneggiare aziende e mercati.
Lo stabilimento è il più grande d'Europa, era di proprietà pubblica, come pubblici furono i fondi che consentirono il risanamento della siderurgia italiana attraverso la messa in liquidazione di Italsider e Finsider. Poi nel 1995, grazie al governo Dini (il "rospo" salito alla guida del paese dopo il primo grande tonfo di Berlusconi) la febbre delle privatizzazioni spinse il governo a svendere l'impianto al Gruppo Riva, un investimento che si è ripagato nel giro di tre anni e che ha consentito a una società nata per commercializzare rottami di ferro (un "rubivecchi", insomma) di diventare il decimo produttore di acciaio al mondo con un fatturato di 8,53 miliardi di euro e circa 25000 dipendenti.
Dalla sua cessione, lo stabilimento di Taranto è finito nel mirino della magistratura per l'alto livello di inquinamento dell'ambiente circostante. Gli impianti dell'Ilva emettevano nel 2002 il 30,6% del totale della diossina sul territorio italiano, ma sulla base dei dati INES (Inventario Nazionale delle Emissioni e loro Sorgenti) nel 2006 la percentuale sarebbe salita al 92%, contestualmente al trasferimento delle lavorazioni "a caldo" dallo stabilimento di Genova.
I periti nominati della Procura di Taranto hanno quantificato nel giro di sette anni un totale di 11.550 morti, con una media di 1.650 morti all'anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratori e 26.999 ricoveri, con una media di 3.857 ricoveri
all'anno, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e
cerebrovascolari.
Nel febbraio del 2007 Emilio Riva
è stato condannato a tre anni di reclusione e Claudio Riva a 18 mesi
per omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro e violazione di
norme antinquinament. Tale condanna è stata confermata in secondo grado: nel 2008 la Corte d'appello di Lecce ha condannato alla pena di due anni di reclusione il presidente dell’Ilva e ad un anno e otto mesi il direttore dello stabilimento tarantino,
Luigi Capogrosso. Da ieri, l'ex "rubivecchi" Emilio è agli arresti domiciliari insieme all'altro figlio, Nicola.
Fine della parabola? Figuriamoci. Di fronte a questo scempio gli industriali (quelli che di solito battono le mani ai loro colleghi che ammazzano la gente) si stracciano anche le vesti, il governo promette soldi (sempre pubblici) per risanare non si sa bene cosa e perfino Nichi Vendola, leader di un partito che si chiama Sinistra, Ecologia (!) e Libertà, ha parlato di "fondamentalismo ambientalista".
E invece è l'ennesima dimostrazione del fallimento delle classi industriale e politica italiana, da sempre a braccetto nel sostenersi a vicenda nelle loro porcate tradizionali e disposte a passare sui cadaveri pur di fare i soldi.
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