Se i manifesti di Milano e le invettive di Silvio Berlusconi contro i magistrati già erano roba da voltastomaco, la cerimonia commovente in ricordo di alcuni che ci hanno lasciato le penne, con tanto di piantarello del presidente Giorgio Napolitano, non è che sia meno disturbante. Perché alla fine tutte queste persone hanno dovuto lottare più con lo Stato che non con i delinquenti sui quali volevano mettere le mani. Sulla scalinata d'ingresso del Palazzo di giustizia di Milano oggi c'erano tre foto: quelle dei giudici Emilio Alessandrini e Guido Galli, uccisi da "Prima linea" nel 1979 e nel 1980 e quella di Giorgio Ambrosoli, assassinato da un killer della mafia nel 1979.
Nel comando di fuoco che fece fuori i primi due c'era anche Marco Donat-Cattin, figlio di Carlo, politico di prima fila della Democrazia Cristiana, e quando alcuni pentiti rivelarono il suo ruolo l'allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, avvertì il padre che il figlio era ricercato. Lo stesso Cossiga che al suo funerale è stato definito da Napolitano "un grande uomo di Stato". Il terzo è morto a causa di un complicatissimo intrigo che ha visto come protagonisti molti altri grandi uomini di Stato. Per non parlare di tutti gli altri magistrati celebrati oggi a Milano come Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, spesso abbandonati a loro stessi, privati delle scorte, mandati al macello da quello stesso Stato che ora, con un paio di lacrimucce in favore di telecamera, vorrebbe rifarsi una verginità.
Non è che perché uno ogni tanto tira le orecche a Berlusconi allora è automaticamente una brava persona.
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