Come se fossero una telenovela senza fine, i segreti degli anni di piombo tornano sulle pagine dei giornali ciclicamente, senza che al Viminale ci sia mai qualcuno, a prescindere dall'orientamento politico, che sia disposto ad aprire quei maledetti archivi. Stavolta tocca a due casi quasi contemporaneamente, quello di Valerio Verbano, militante romano della sinistra extraparlamentare ucciso dentro casa sua il 22 febbraio del 1980 e quello di Fausto Tinelli e Lorenzo "Iaio" Iannucci due diciottenni che frequentavano il Centro Sociale Leoncavallo, uccisi a Milano il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro.
I colpevoli non furono mai trovati e nei confronti delle vittime si scatenò anche una campagna diffamatoria (nel primo caso ci fu chi disse che Verbano fu colpito dai suoi stessi compagni perché era una spia, mentre per Fausto e Iaio si parlò di un regolamento di conti fra spacciatori di droga). A oltre trent'anni dai due episodi, le vicende si arricchiscono di nuovi particolari.
Per l'omicidio del giovane romano, trucidato dentro casa da tre persone che lo aspettarono al varco dopo aver legato e imbavagliato i gentiori, la Procura sta indagando su due presunti appartenenti ai Nar, organizzazione terroristica di estrema destra spesso collegata ai servizi segreti italiani e americani e perfino alla Banda della Magliana. Uno di loro è da tempo fuggito all'estero, mentre l'altro si è rifatto una vita in Italia ed è un insospettabile professionista.
L'ombra dei servizi deviati si allunga anche sul caso dei due ragazzi milanesi. La madre di Fausto, Danila Angeli, in un'intervista a Radio 24, ha rilanciato le accuse. "Mio figlio è stato vittima di un commando di killer giunti da Roma a Milano, nel pieno del rapimento di Aldo Moro, in una città blindata da forze dell'ordine. Un omicidio su commissione di uomini dei servizi segreti. Gli apparati dello Stato avevano affittato un appartamento al terzo piano del mio palazzo, in via Monte Nevoso 9, esattamente davanti all'appartamento in cui risiedevano appartenenti alle Brigate Rosse, responsabili del rapimento Moro, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana", ha raccontato la donna, fornendo indicazioni ben precise.
Eppure la verità è sicuramente scritta da qualche parte, in quegli archivi coperti da un assurdo segreto di Stato e custoditi nelle mefitiche stanze del Viminale. Dopo la fine della prima Repubblica sulla poltrona di ministro dell'Interno si sono avvicendati politici di segno politico opposto, da Nicola Mancino a Roberto Maroni, passando per Enzo Bianco, Claudio Scajola (chissà se lo avevano nominato anche lì a sua insaputa), Giuseppe Pisanu e Giuliano Amato, per non parlare di Giorgio Napolitano, che prima annunciò l'invio ai magistrati di alcuni faldoni, ma poi li lasciò coperti dal segreto, compresi ovviamente quelli relativi al processo Moro. Non solo, da ministro dell'Interno l'attuale presidente della Repubblica si fece sfuggire sotto il naso il capo della Loggia massonica P2, Licio Gelli, scappato all'estero (dopo essere evaso dal carcere già nel 1983) il 28 aprile 1998, il giorno stesso della divulgazione della sentenza definitiva di condanna per depistaggio e strage da parte della Cassazione.
Più realisti del re, anche i comunisti.
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