giovedì 15 dicembre 2011

Il business del rosario, dallo sfruttamento del lavoro in Albania al suq di via della Conciliazione

Gesù, che era un tipo fumantino, scacciò a calci i mercanti dal tempio. Chissà che faccia farebbe oggi davanti a quel mercato di oggettistica religiosa a vario titolo che sono da sempre le strade intorno a piazza San Pietro a Roma, o a San Giovanni in Laterano, dove i negozi spacciano a prezzi da merchandising ufficiale tutti gadget del Vaticano, dai rosari alle croci, alle foto esclusive del papa. Una bella inchiesta dell'Espresso ha fatto luce su uno degli aspetti più tristi della vicenda, lo sfruttamento del lavoro in Albania, dove i rosari vengono pagati 70 centesimi al pezzo per essere rivenduti qui a Roma a 20 euro. Qualcosa come 300 volte di più. Il giornalista che ha effettuato l'inchiesta è stato trattato a maleparole dai negozianti di oggetti sacri e si è recato anche al di là dell'Adriatico per scoprire il business della preghiera. Tutto merito dell'antico codice Kanun, che costringe le donne albanesi imparentate con un assassino a restare chiuse in casa per non incappare nella vendetta. Alla ricerca di soldi anche solo per sopravvivere, vengono ingaggiate da un commerciante italo-albanese: ogni settimana arrivano dall'Italia perline, croci e fili da trasformare in rosari, che poi faranno il viaggio inverso per finire nelle case e nelle macchine dei pii e devoti turisti religiosi.
Un dumping che manco il più bieco dei fabbricanti di automobili si sognerebbe.

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