lunedì 25 marzo 2013

Tutti gli uomini dell'inciucio del Presidente

Pierluigi Bersani non ce la farà. Non solo perché la disponibilità ad appoggiare un suo governo da parte di Beppe Grillo e dei suoi sembra assai ridotta, ma anche - con tutta evidenza - per il fatto che a voler formare un governo di rinnovamento che abbia all'ordine del giorno del programma cose esotiche tipo il conflitto di interessi, la riforma della legge elettorale, la lotta alla corruzione e magari (perché no) finalmente l'ineleggibilità di quello scandalo vivente che si chiama Silvio Berlusconi, è rimasto solo lui.
Il Partito Democratico è ormai giunto alla frutta e il suo progressivo spostamento al centro è stato certificato da questa tornata elettorale sfortunata. Mentre il povero segretario continua a pensare alla "domanda di cambiamento" emersa dal risultato delle urne, tutto il resto dell'Armata Brancaleone tira la fune da un'altra parte.
Il primo è il presidente Giorgio Napolitano, che per ben tre volte ha giocato contro il suo partito, quando nel 2010 fece ritardare il voto sulla mozione di sfiducia contro il Nano avanzata da Fini (dandogli il tempo di comprare sotto i suoi occhi di garante un po' begalino una pattuglia di straccioni che gli salvarono le chiappe), quando nel 2011 convinse i compagni a suicidarsi votando insieme al Pdl il governo Monti, uno dei più impopolari (e inefficaci) della storia repubblicana e oggi con un incarico a Bersani fortemente condizionato, in modo da impedire al segretario l'unica mossa possibile: quella di formare un esecutivo con nomi talmente slegati dalla vecchia politica da mettere Grillo con le spalle al muro di fronte alla responsabilità di non appoggiare una pattuglia di persone che avrebbero invece incontrato tutti i favori della società civile. Napolitano lo ha detto chiaramente, lui tifa per il governo di unità nazionale, che non si può fare per quelle che lui chiama "antiche inimicizie", sorvolando sul fatto che il leader dello schieramento avversario (come direbbe quel gran genio di Veltroni) sia inseguito dalla Procure di tutta Italia (del resto, bei tempi quelli in cui i miglioristi di Giorgio facevano affari e giunta insieme ai cognati di Craxi nella Milano da bere) e che i suoi dipendenti tengano manifestazioni eversive contro la magistratura. 
Ma i nemici di Bersani si annidano anche tra i funzionari di partito. 
Il secondo è il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che continua ad agire da cerchiobottista, grazie anche al delirio collettivo che ha preso molti elettori del Pd convinti che con il democristiano dalla faccia brufolosa si sarebbero vinte le elezioni. A me sembra chiaro che con lui la sinistra avrebbe perso un altro bel po' di voti, però magari ora sarebbero al governo con Silvio, visto che Renzi ama andare in pellegrinaggio ad Arcore e ieri finalmente si è lasciato sfuggire quello che pensa da sempre: non si può fare un governo senza dialogare con Berlusconi. 
E poi c'è tutto il caravanserraglio degli ex margheriti, gli Enrico Letta e le Rosy Bindi (una che l'opposizione a B. ha cominciato a farla solo dopo che il gentiluomo le ha dato apertamente della cessa, mentre il primo diceva che era meglio votare per il Caimano che per il Movimento 5 Stelle), i resti del rutellismo come Fioroni e Gentiloni, i resti del veltronismo, come il barbuto Franceschini (il perenne trombato), il tristissimo Fassino o il verde da salotto Realacci
Tutta questa gente sa benissimo che, se un governo si dovesse fare, per loro sarebbe finita. Per sempre.
Ma tutto a un tratto arriva l'unto del Signore, che per evitare la galera o la latitanza in qualche paese lontano (la fine che fece il suo mentore di un tempo), propone la sua ricetta finale: Bersani a Palazzo Chigi con Alfano vice e un moderato al Quirinale. 
Nessuno ride. 
Segno che molti ci stanno pensando e Renzi, diciamoci la verità, ci starebbe di sicuro.

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